Giuseppe è uno scienziato. Lui va dove deve andare, scende alla profondità esatta, aspetta e trova il pesce che deve trovare, gli spara solo se rispetta i requisiti di taglia e, soprattutto, lo centra. Fabio si affida invece al ragionamento induttivo: va in acqua col fucile che gli capita, anche storto e spompato, batte a tappeto ogni scoglio e spara a qualsiasi cosa si muova.
In questo momento sono loro due gli esempi che mi vengono in mente per introdurre la mia esperienza con la pesca subacquea. Io però, che pure ho approfittato lautamente di entrambe le mense, non riesco ad assomigliare a nessuno dei due.
Non ho il fiato, o il coraggio, per acquattarmi dietro uno scoglio a 15 metri di profondità ad aspettare il dentice dei miei sogni, e quindi mi limito ad annaspare in cinque metri d’acqua mentre i piombi alla mia cintura lottano invano contro il galleggiamento della mia muta nuova di pacca. E quando, perlustrando la costa, lo sparaglione rimane per una attimo davanti alla punta del mio arbalete... beh, mi guarda con quegli occhi assolutamente inespressivi, talmente inespressivi da sembrare quelli di un terrapiattista, e non riesco a premere il grilletto.
Quindi per fare un po’ di tiro al bersaglio col mio fucile sparo alle alghe, o ai pesci già morti di morte naturale. Non ne incontro molti.
Il mio arbalete, anch’esso nuovo di pacca come la muta, avrà tirato si e no dieci volte. Mai a segno.
Eppure ogni volta affronto la vestizione come un cavaliere medioevale indossava l’armatura prima dell’assalto alle sacre mura di Gerusalemme. Mi bagno, mi ungo, mi infilo nei 5.5 mm di neoprene sotto lo scoppio implacabile del Sole ("Anvedi ‘sto goio", penserà lui, che tutto vede, di me), mi calzo, inciampo nelle pinne, me le tolgo e me le rimetto in acqua rischiando di affogare, mi metto la maschera e poi me la tolgo in acqua perché si è appannata, rischiando nuovamente di affogare, mi lego il pallone in vita e rimango immediatamente aggrovigliato nella sua cima galleggiante. E poi, finalmente, carico il fucile e pinneggio verso l’isolotto. C’è sempre un isolotto, da queste parti, e sempre ha una secca che lo congiunge alla terra, e uno sprofondo blu che si perde improvviso verso il mare aperto.
Prendo fiato, mi immergo, rimango aggrappato a una roccia fino a che i pesci più piccoli mi inglobano come fossi un relitto affondato da duemila anni - il che dà un’idea di quando spazio riservato alla memoria ci sia, nel cervello dei pesci più piccoli - e poi sul più bello, dopo quindici lunghissimi secondi, scappo verso l’alto in cerca di aria.
In superficie l’acqua è a 27 gradi, già a cinque metri la temperatura scende parecchio, e con la mia muta nuova, se non voglio fare la schiuma come un pezzo di sapone di Marsiglia, devo necessariamente passare più tempo possibile vicino al fondo. Forse è questo l’unico stimolo per immergermi, considerato che di pesci non ne vedo mai di più grandi di una lappera: grazie alla muta posso immergermi, cosa che senza muta non avrei né desiderio né necessità di fare.
Poi torno alla barca, scarico il fucile, lo metto a bordo e vado a farmi una nuotata verso la spiaggia. Ed è solo (e sempre) allora che incontro il banco di cefali di mezzo metro, che mi gira davanti al muso con l’evidente intenzione di prendermi in giro.
Anche stamattina è andata così, e quindi nel pomeriggio, sudato come la pancia bavosa di un canguro, colpo di genio, ho deciso di invertire le attività. Ho saltato la fase della sacra vestizione, mi sono tuffato in costume, con solo maschere e pinne, e ho preso il fucile con l’intenzione di andare subito verso la spiaggia a sparare ai cefali appena questi avessero cominciato lo sfottò.
Quindi come prima cosa ho caricato il fucile nuovo, per la prima volta senza muta. Un po’ faticoso, un po’ pesante sul petto, ma fattibile. E il supporto sternale si è spaccato, il fucile mi è scivolato di lato e ora sul costato ho tre lacerazioni che sembrano la testimonianza di un mio incontro ravvicinato con la rediviva tigre di Sandokan.
I cefali ancora ridono.

Non ho il fiato, o il coraggio, per acquattarmi dietro uno scoglio a 15 metri di profondità ad aspettare il dentice dei miei sogni, e quindi mi limito ad annaspare in cinque metri d’acqua mentre i piombi alla mia cintura lottano invano contro il galleggiamento della mia muta nuova di pacca. E quando, perlustrando la costa, lo sparaglione rimane per una attimo davanti alla punta del mio arbalete... beh, mi guarda con quegli occhi assolutamente inespressivi, talmente inespressivi da sembrare quelli di un terrapiattista, e non riesco a premere il grilletto.
Quindi per fare un po’ di tiro al bersaglio col mio fucile sparo alle alghe, o ai pesci già morti di morte naturale. Non ne incontro molti.
Il mio arbalete, anch’esso nuovo di pacca come la muta, avrà tirato si e no dieci volte. Mai a segno.
Eppure ogni volta affronto la vestizione come un cavaliere medioevale indossava l’armatura prima dell’assalto alle sacre mura di Gerusalemme. Mi bagno, mi ungo, mi infilo nei 5.5 mm di neoprene sotto lo scoppio implacabile del Sole ("Anvedi ‘sto goio", penserà lui, che tutto vede, di me), mi calzo, inciampo nelle pinne, me le tolgo e me le rimetto in acqua rischiando di affogare, mi metto la maschera e poi me la tolgo in acqua perché si è appannata, rischiando nuovamente di affogare, mi lego il pallone in vita e rimango immediatamente aggrovigliato nella sua cima galleggiante. E poi, finalmente, carico il fucile e pinneggio verso l’isolotto. C’è sempre un isolotto, da queste parti, e sempre ha una secca che lo congiunge alla terra, e uno sprofondo blu che si perde improvviso verso il mare aperto.
Prendo fiato, mi immergo, rimango aggrappato a una roccia fino a che i pesci più piccoli mi inglobano come fossi un relitto affondato da duemila anni - il che dà un’idea di quando spazio riservato alla memoria ci sia, nel cervello dei pesci più piccoli - e poi sul più bello, dopo quindici lunghissimi secondi, scappo verso l’alto in cerca di aria.
In superficie l’acqua è a 27 gradi, già a cinque metri la temperatura scende parecchio, e con la mia muta nuova, se non voglio fare la schiuma come un pezzo di sapone di Marsiglia, devo necessariamente passare più tempo possibile vicino al fondo. Forse è questo l’unico stimolo per immergermi, considerato che di pesci non ne vedo mai di più grandi di una lappera: grazie alla muta posso immergermi, cosa che senza muta non avrei né desiderio né necessità di fare.
Poi torno alla barca, scarico il fucile, lo metto a bordo e vado a farmi una nuotata verso la spiaggia. Ed è solo (e sempre) allora che incontro il banco di cefali di mezzo metro, che mi gira davanti al muso con l’evidente intenzione di prendermi in giro.
Anche stamattina è andata così, e quindi nel pomeriggio, sudato come la pancia bavosa di un canguro, colpo di genio, ho deciso di invertire le attività. Ho saltato la fase della sacra vestizione, mi sono tuffato in costume, con solo maschere e pinne, e ho preso il fucile con l’intenzione di andare subito verso la spiaggia a sparare ai cefali appena questi avessero cominciato lo sfottò.
Quindi come prima cosa ho caricato il fucile nuovo, per la prima volta senza muta. Un po’ faticoso, un po’ pesante sul petto, ma fattibile. E il supporto sternale si è spaccato, il fucile mi è scivolato di lato e ora sul costato ho tre lacerazioni che sembrano la testimonianza di un mio incontro ravvicinato con la rediviva tigre di Sandokan.
I cefali ancora ridono.

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